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L'Europa «à la carte», così è la fine

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L'accordo dell'altra notte fra Londra e l'Unione europea per scongiurare la Brexit, l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue, è un compromesso che cede molto agli inglesi in termini di autonomia, ma forse può evitare la rottura definitiva al referendum britannico di giugno sulla permanenza o meno in Europa. Per il resto, è buio totale. Anche dal vertice di venerdì non è uscito nulla su come affrontare insieme la fiumana di profughi in arrivo, la chiusura delle frontiere, la sospensione di Schengen, le spinte disgregatrici e nazionaliste che stanno uccidendo l'Europa stessa nelle sue fondamenta.

Ciò che sta passando a livello di stati e di opinione pubblica è che l'Europa è ormai «à la carte», ognuno prende quello che vuole, fa quello che vuole, ne sfrutta i vantaggi fin che può e non si assume più doveri. Responsabilità e reciproca mutualità non esistono più. Solo chiusure, rivendicazioni, pseudo-interessi nazionali, incapacità di sguardo non solo sul domani, ma neanche sull'oggi, in una cecità spaventosa dalle conseguenze inimmaginabili.
Va detto chiaramente e con forza: l'Unione europea non è un bancomat dove si preleva a piacere, o un menù da cui scegliere ciò che si vuole. Non è un bene di consumo. È una comunità di destini: una grande famiglia di 500 milioni di cittadini, uniti da storia cultura civiltà, oltre che da economia e geografia. Quindi, un investimento sul futuro. Non può essere che vi siano Paesi, come quelli dell'Est, che da oltre dieci anni beneficiano dell'allargamento, ricevono fondi strutturali e finanziamenti per la crescita, e quando c'è da dare, da affrontare insieme un'emergenza come quella dei rifugiati, si chiudono dentro i propri confini. Alzano le spalle, e lasciano il problema ad altri.

Non può esistere che nazioni nel cuore dell'Europa come l'Austria, unilateralmente, violando il diritto europeo (quindi, in maniera illegale) decidano la chiusura delle frontiere. Basterebbe un ricorso alla Corte di giustizia contro la sciagurata decisione di Vienna, e verrebbe immediatamente accertata la violazione, come è successo peraltro all'Italia, punita a suo tempo per i respingimenti dei migranti in mare. Non può essere accettata senza reagire questa sorta di negazione e ribaltamento dei principi europei, cancellando di fatto Schengen e la libera circolazione delle persone, invece di modificare Dublino, il vecchio trattato sul diritto d'asilo superato dai fatti e dalla storia.

Lo stesso Regno Unito, pur nella sua diversità oltre Manica, non può rivendicare solo lo «status speciale» senza rendersi conto dei vantaggi che riceve dalla stabilità politica ed economica dell'Unione europea, e quanto può e deve contribuire a rafforzarla e non a scardinarla. Anche per Matteo Renzi, che sbaglia alzando i toni in maniera rissosa e poco efficace pur nella giusta necessità di dare una sveglia ad un establishment europeo asfittico e imbalsamato, la battaglia non deve ridursi ad avere flessibilità di bilancio per le politiche umanitarie sui profughi. Il vero cambiamento è nel chiedere e rivendicare con forza - creando alleanze politiche adeguate - un bilancio comunitario che si occupi direttamente dell'emergenza profughi e di tutto ciò che riguarda la frontiera estera europea. Come pure un unico ministro delle Finanze europeo, magari affiancato da un consiglio indipendente per valutare le condizioni di finanza pubblica dei singoli Stati, con la responsabilità di gestire un bilancio comune.

Un unico ministro che possa sul fronte finanziario fare da pendant a quello che egregiamente sta facendo Mario Draghi sul fronte monetario, alla guida della Banca centrale. Un'autorità europea, dotata di corrispettivo budget adeguato, a capo della spesa pubblica dell'Unione, col compito di stanziare e ridistribuire le risorse a seconda delle diverse necessità, stabilizzando il ciclo economico. Questo di pari passo ad un'Autorità europea di gestione dei confini della Ue, varando un corpo di polizia comune (tipo Fbi) e una conduzione unitaria degli hotspot, distribuendo costi e realizzazioni anche tra chi non è immediatamente colpito dalle migrazioni.

E poi un'unione bancaria, compreso l'avvio delle garanzie europee sui depositi, così da rendere pienamente efficace l'azione della Bce, a sostegno dell'euro e al servizio della ripresa. Insieme al completamento in maniera innovativa della riforma in campo istituzionale. Sarebbe una battaglia veramente europeista, di cui lo stesso premier Renzi e l'Italia potrebbero farsi lodevolmente promotori, dimostrando anche in Europa l'avanzare di una classe dirigente nuova, fatta di leader nuovi, come i francesi Manuel Valls ed Emmanuel Macron. Non bisogna aver timore, ormai, a pensare ad un'Europa a due velocità. Di fatto è già così, e l'accordo dell'altra notte con David Cameron ne ha sancito la diversità di marcia.

Rassegnarsi allo smantellamento di Schengen, riesumando muri e frontiere, porta solo alla frantumazione. Meglio allora costruire due livelli: uno più stretto, più unito, vincolato dall'unica moneta, deciso nel completamento del progetto europeo d'integrazione. L'altro uno spazio comune di libero mercato, dotato di una regolamentazione basilare ma non obbligato alla cooperazione rafforzata, privato però di poteri di veto e di interferenza come avviene oggi irresponsabilmente, a meno di assunzione di analoghe responsabilità. A questo punto, è l'unica via d'uscita consentita, pena altrimenti la dissoluzione dell'intera Europa. Un percorso peraltro previsto dagli stessi Trattati in vigore, che prevedono le «due velocità».

Il nucleo duro dell'Eurozona potrebbe in quel momento accelerare il rafforzamento istituzionale, passare da un'unione monetaria ad un'unione politica, dotata finalmente di strumenti e di mezzi per avviare politiche espansive e fronteggiare proficuamente ogni problema ed emergenza che il domani potrebbe presentare. Questo dovrebbe essere il disegno forte su cui il premier Renzi e l'Italia sarebbero legittimati ad «alzare la voce». O meglio, a diventare motori di una tessitura federativa dell'Europa che, dal trattato di Roma del 1957 all'Atto unico di Milano del 1985, è sempre stata con successo la nostra bandiera.


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