Alla prima vera prova di governo, la guida della città di Roma, il Movimento 5Stelle ha generato il caos e la paralisi della capitale, dimostrando nei fatti che gli slogan belli e trinariciuti vanno bene per la propaganda e i «vaffa» di piazza, ma risultano fumo negli occhi quando si tratta di assumersi responsabilità, fungendo solo da nascondimento della propria incapacità di governare.
Sono bastati tre mesi dalle elezioni per vedere franare inesorabilmente tutti gli assiomi dell’ideologia grillina: il mito della rivoluzione della purezza e della trasparenza totale; il totem dell’onestà come assoluto di cui unici depositari risultavano i pentastellati, gli unti del Signore; la presunzione che per governare non serve competenza, capacità e selezione ma può farlo il primo che capita a tiro; la pericolosa teoria che a decidere sia il blog, la democrazia diretta, i «cittadini», senza sapere chi come e quando, e con quali controlli e garanzie democratiche. Risultato: a decidere a Roma sono stati gli studi legali dell’avvocato Previti, condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari. E sui rifiuti, l’emergenza numero uno della capitale, comanda chi ha sempre comandato, in una continuità e contiguità sospetta con gli interessi e i poteri forti precedenti.
Fare politica è una cosa seria, non s’improvvisa con la spocchia dei salvatori del mondo. Richiede preparazione, formazione, esperienza, selezione della classe dirigente, umiltà di saper mediare con le altre posizioni per trovare una soluzione condivisa, e soprattutto competenza e capacità di gestire le spinte di potere e gli interessi nascosti che vengono anche dal proprio interno, dall’interno del Movimento 5 Stelle.
A Roma, infatti, è in atto una guerra spietata tutta interna al movimento per stabilire chi comanda, chi controlla, chi ha più potere, o per lo meno potere di veto.
Più che un movimento, quello inventato da Grillo è una religione, una fede, una setta, un’utopia rivoluzionaria che non ha niente a che fare con la politica e con il governo delle città (figurarsi della nazione). Sulla base di una mistica del «partito degli onesti» e della «città del sole», si presenta come utopia della storia. E in quanto tale, come tutte le utopie della storia che hanno voluto tradursi in realtà, da Robespierre a Stalin, il risultato non è certo il paradiso in terra, ma - se va bene - il caos in città.
Alla base, infatti, dell’ideologia grillina che a Roma per la prima volta si confronta con il principio di realtà, c’è il rifiuto della politica come capacità di risolvere in maniera democratica i problemi della città e il governo di un Paese. Pertanto, vengono rifiutati tutti i metodi della politica democratica e la «contaminazione» con gli altri in nome di una propria presunta inesistente purezza.
A forza di usare il giustizialismo e gli avvisi di garanzia per sobillare le masse e alimentare il rifiuto della politica, come apprendisti stregoni ne sono rimasti travolti. Colpiti e affondati dallo stesso giustizialismo fomentato e dall’azzardata antidemocratica teoria che siano i pm e i giudici a dover governare con gli avvisi di garanzia e non gli eletti dal popolo. Così a Roma non si riesce a formare una giunta perché fioccano gli avvisi di garanzia, con la spregiudicata ipocrisia di un garantismo peloso a intermittenza: quando tocca agli altri è male, quando tocca ai nostri è un complotto. Quando tocca alcuni ci si deve dimettere, quando tocca ad altri occorre aspettare il terzo grado di giudizio.
Se sull’onestà i grillini hanno dimostrato di zoppicare peggio degli altri (avvisi di garanzia sono arrivati anche ai sindaci 5Stelle di Parma, Livorno, Quarto, Pomezia, oltre che agli assessori di Roma), anche sulla trasparenza si sono qualificati di una opacità sfacciata e impressionante (la chicca su tutte distillata dal movimento è che «tacere la verità non vuol dire mentire»).
Va detto con chiarezza che l’arrivo di un avviso di garanzia e l’avvio di un’indagine non vuol dir niente finché non c’è sentenza passata in giudicato: è una verifica dei fatti, accertando se nei comportamenti si configurino o meno reati. Detto questo, non si può brandire l’avviso di garanzia come una clava da dare in testa agli avversari politici, e rivendicare il garantismo per sé. Una volta per tutte tale doppiopesismo farisaico andrebbe scrollato di dosso da parte dei pentastellati, lasciando che le indagini abbiano il suo corso fino a sentenza. Perché a forza di buttare sterco sul ventilatore, alla fine gli schizzi di liquame sono arrivati abbondanti su tutto il movimento.
Quanto alla trasparenza, la squallida vicenda di Roma ha dimostrato che per i 5Stelle mentire è giustificato e giustificabile se il fine è «buono», se si tratta di difendere un proprio assessore, se la ragion di stato del movimento richiede di tacere, di nascondere, di sopire. E la famosa democrazia diretta, lo streaming a cui tutto doveva essere sottoposto perché tutto fosse alla luce del sole e sotto il controllo dei cittadini, è finita in un cassetto quando si è trattato di difendere interessi consolidati e poteri forti della gestione dei rifiuti. Per non parlare della disinvoltura del dipendente comunale che si è messo in aspettativa dal comune di Roma per farsi assumere dal sindaco Raggi con il triplo di stipendio.
L’altro mito grillino clamorosamente sbuggerato dalla triste vicenda romana è l’uguaglianza assoluta: nel movimento 5Stelle uno vale uno, ma c’è qualcuno che vale di più. Come nella fattoria degli animali di Orwell, gli animali sono tutti uguali, ma c’è qualcuno più uguale degli altri. Così chi è raggiunto da un avviso di garanzia viene massacrato se si tratta di un avversario politico, viene espulso se si tratta di un amministratore 5Stelle non gradito (vedi Parma e Quarto), viene difeso a oltranza e resta al suo posto se ai capi del movimento va bene (vedi sindaco di Livorno), o addirittura viene blindato come l’onnipotente assessora Muraro di Roma, sotto indagine per i mancati controlli sui rifiuti, affidandole la gestione dei rifiuti.
La cosa più grave, pericolosa, gravida di conseguenze sul futuro del Paese per un movimento che si candida a guidare l’Italia, resta comunque il teorema che si possa andare al governo facendo a meno della capacità. La famosa cuoca di Lenin che, come tutti, poteva guidare la nazione. La pericolosa fallacità di tale presa per il naso è stata messa alla prova nel comune di Roma, e ha dimostrato quali rischi insiti essa contenga. La dottrina per cui l’eletto è solo il portavoce del popolo, e quindi può anche non saper come si governa una città o una nazione, rischia di portare allegramente nel baratro l’Italia, cantando tutti in coro «onestà, onestà» in attesa che sia il blog di Grillo a ordinare cosa fare. Pietro Nenni a chi gli diceva che basta l’onestà per governare, rispondeva sereno: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».
In realtà, se non si ha classe dirigente, non si può governare. Si finisce per pescare i nomi degli assessori nello studio legale di riferimento di Cesare Previti, o ci si riduce 70 giorni dopo le elezioni a dover cercare il terzo assessore di bilancio per fare un bilancio alla fine del mese, con una giunta che finora non ha fatto nulla, se non danni.
L’utopia messianica va bene come sogno cantando sulla musica degli Inti-Illimani o come prospettiva metafisica della redenzione del mondo, di cui però si occupa la religione. La politica si occupa di altro, di decidere e far funzionare le cose per il bene comune, in una visione laica della democrazia, seguendo strumenti democratici, applicando il principio di Montesquieu della separazione liberale dei poteri democratici. Non quelli di Rousseau, il cattivo maestro delle ghigliottine di Robespierre.